mercoledì 16 marzo 2011

VIVA V.E.R.D.I.




Ho letto oggi "L'Italia più divisa che mai", un articolo di Brigit Schonau per il Die Zeit (ovviamente nella traduzione dell'Internazionale, visto il mio ottimo tedesco) che potete trovare qui in traduzione e qui in originale.

La Schonau parla ovviamente dell'Unità d'Italia e dei festeggiamenti associati, senza troppi fronzoli e sottintendendo cose di storia altrui che evidentemente a suo tempo i tedeschi hanno imparato a scuola. Il culmine dell'ironia teutonica (che personalmente immagino coniata con la perizia del gran cabaret) è in questa frase qua: "un decreto legge per la festa nazionale - come se si trattasse di uno stato di crisi" (Eine Notverordnung für den Feiertag – als handele es sich um einen ernsten Krisenfall). Ennesima occasione per fare davvero gli italiani e pensarci su.

Come tutti mi sto chiedendo in questi giorni se siano effettivamente giustificabili i festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità. Precisiamo subito: non che io non sia d'accordo con una manifestazione simile, anzi. E' che sono abituato a pensare in modo critico, non posso farci niente.
Mi chiedo ad esempio se ha più senso celebrare la cifra tonda dell'Unità o aspettare un qualsiasi 2 giugno per la cifra imperfetta della Repubblica, la nuova Alba di questa nazione che non sarà mai festeggiata abbastanza. Mi chiedo poi se il 17 marzo sia la festa per la ricorrenza del compimento di un processo di unificazione finito nel 1861, o se sia la festa del secolo e mezzo di storia successiva. Mi chiedo se abbia senso far polemica sul Garibaldi conquistatore, sul Cavour altezzoso aristocratico, sul Mazzini massone, sul leghista Cattaneo, che si stava meglio quando si stava peggio e che qui, signora mia, una volta era tutta campagna (soprattutto da parte di chi sembra dimenticarsi che, a cercarne, ci sarebbero tutti i motivi per boicottare la festa del Regno d'Italia, visto che nel frattempo siamo riusciti a inventare il fascismo). E avanti così.

Poi però vedo scene come quella di ieri al Consiglio Regionale della Lombardia, con i consiglieri leghisti che durante l'Inno di Mameli sono andati a farsi un caffè. Una protesta sciocca e francamente imbarazzante, così come erano imbarazzanti le giustificazioni a riguardo: "io sono qui per lavorare, non per cantare" o la pericolosa affermazione di Davide Boni, il presidente leghista del consiglio regionale, che in sostanza ha detto di essere rimasto per dovere istituzionale, ma di non credere all'inno nazionale. Credo che anche una buona fetta dell'elettorato leghista abbia sollevato un sopracciglio, perchè va bene tutto ma una protesta è anche questione di stile. Non è passato nemmeno un mese da quando Roberto Benigni, con movenze e accenti nazionalpopolari per carità, ma con una genuinità contagiosa e sorridente, ci ha raccontato come nacque l'inno di Mameli, cosa volesse dire, come veniva inizialmente cantato, perchè venne scelto come Inno della Repubblica: "E' la Vittoria che è schiava di Roma, Umberto, non l'Italia!". Ma la Lega sull'inno nazionale è dura (ovviamente). Per fortuna, mentre cercavano disperatamente delle scuse per una protesta così ottusa, nessuno ha evocato il "Va, Pensiero", l'Inno Padano secondo i leghisti, una cosa leggermente diversa secondo Riccardo Muti. Immaginate il patriota Verdi, mentre pensa che un giorno certi governanti italiani della Val Brembana avrebbero cercato di dividerla di nuovo, l'Italia, inventandosi la fantageografica Padania. Ecco, immaginatevi Verdi e, quatti quatti, sussurrategli che l'avrebbero fatto intonando il "Va, Pensiero".

Mia nonna mi raccontava che quando nel 1918 a Trento ci arrivarono gli Italiani, mio bisnonno se la caricò sulle spalle e la portò lungo il ribattezzato Corso III Novembre con una coccarda tricolore appuntata sul petto. A differenza di Durnwalder e soci, mio bisnonno era austriaco anche secondo l'anagrafe, e non smise di esserlo dopo il 3 novembre. Eppure era orgoglioso di essere diventato Italiano. Allo stesso modo mia nonna, buon'anima, trovava nella sua doppia nazionalità, nel suo cognome mitteleuropeo, un motivo d'orgoglio e di onore.

Bastano alcuni personaggi e alcune situazioni così per rendere importante il 17 marzo, per renderla una festa tutt'altro che scontata. E pare di risentire Garibaldi, che quando l'Italia era solo "un'espressione geografica" disse: "Per pessimo che sia il Governo italiano, ove non si presenti l'opportunità di facilmente rovesciarlo, credo meglio attenersi al gran concetto di Dante: Fare l'Italia anche col diavolo".

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