giovedì 12 maggio 2011

Il pistolero


Quando Obama divenne presidente degli Stati Uniti, tutti abbiamo avvertito un sussulto, come se si fosse alzato un vento nuovo nel mondo libero. La netta, inequivocabile sensazione che qualcosa stesse cambiando per davvero. Obama il comunicatore, Obama il profeta del cambiamento. Tutti, in un modo o nell'altro, ci siamo fidati di lui, sovraccaricando un avvicendamento di potere ai vertici del mondo con tutte le speranze nate da un decennio di follia.

Obama è il presidente nero che gioca a basket e ascolta 50 Cent. Obama il presidente che viene dalle Hawaii, che è "giovane, bello e abbronzato". Obama il presidente alla mano, che parla a braccio ma che non perde mai la testa. Obama che ha detto a Bruce Springsteen I'm the president, but he's the Boss (ma attenti, perchè anche Richard Nixon disse a Elvis I'm the president, but he's the King). Obama con la camicia bianca, quella che nei manifesti non va bene perchè spara. Così diverso dallo yankee texano George Bush, che a confronto non può che apparire come un campagnolo un po' bifolco. Obama insomma, l'alfiere così credibile votato ad aggiornare la politica e la società a stelle e strisce del Duemila (e un po' pure la nostra).

Eppure, presi dall'agiografia del presente, ci siamo dimenticati che Obama è sì un simbolo (e su questo non ci piove) ma prima di tutto è il presidente della prima potenza mondiale. Sembrerà banale, ma siamo ancora così innamorati delle speranze di cui si è fatto portatore da dimenticarci che in fondo deve ragionare da statista. E' cresciuto e si è imposto come foriero di un'utopia. E' diventato un demiurgo della realpolitik, ed è così che dobbiamo abituarci a osservarlo.

Chiaramente è più facile immaginarlo come il buono che deve fare il cattivo: gli hanno pure dato sulla fiducia il premio Nobel per la pace, signora mia, qualcosa vorrà dire. Abbiamo ingollato l'escalation afghana e i raid sui cieli della Libia. Poi hanno ammazzato un altro simbolo, l'altro simbolo, e davanti alle dichiarazioni di questa settimana abbiamo di colpo spalancato gli occhi, ci siamo armati di buonismo e abbiamo concluso che quelle frasi sull'uccisione di Osama, Obama poteva anche risparmiarsele.

Personalmente non so cosa pensare. Faccio fatica, ma capisco quanto sia facile criticare l'uomo che si è trovato nella condizione di dover tirare il grilletto, a quindicimila chilometri di distanza, piuttosto che farmi (cioè farci) un esame interiore. Abbiamo avuto il buongusto di non festeggiare - e è già un buon passo - ma ci manca l'onestà di dire che, anche dal nostro punto di vista, "senza Osama Bin Laden il mondo è un posto migliore". Di fatto tutti noi lo volevamo, e possiamo beatamente dirne male solo perchè non siamo stati direttamente noi a ordinare che uccidessero un uomo. Ma l'abbiamo fatto. Il che non vuol dire che sia giusto, quanto che il tutto sia perlomeno crudele.

Anche in questo caso Obama però non sfugge al suo essere eccezione. Impossibile non percepire la contraddizione che permea le sue decisioni, che lo hanno trasformato nell'altra metà di quello che due anni fa prometteva al mondo. Ma allo stesso tempo, ogni volta che vedo il presidente americano, lo guardo come se fosse un eroe della tragedia greca, e proprio come nei classici continuo a identificarmi in un uomo che rappresenta le mie speranze pur non agendo, e forse nemmeno pensando, come vorrei.


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PS.: la foto viene da www.ilpost.it

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