giovedì 7 luglio 2011

Fabrizio, amico fragile



Nel 1939 Henry Ford confessò che quando vedo passare un'Alfa Romeo sento come il bisogno di levarmi il cappello. Succede che ai tempi nostri questa sublime forma di omaggio è stata declinata in infiniti modi per bocca di altrettanti personaggi, salvo però confondere l'Alfa per la NSU. Capita infatti che qualche giorno fa, su Il Giornale sia comparso questo mirabolante pezzo di Luca Beatrice, in cui il noto critico si scaglia nientepopodimento che contro Fabrizio De André, reo di essere "un uomo pieno di contraddizioni, protagonista certo della scena cantautorale degli anni Settanta ma tutto sommato con ben poca originalità. Un sopravvalutato, insomma". Ma facciamo un passo indietro.

Il Beatrice - che sia detto subito è libero di pensarla e di scriverla un po' come gli pare, salvo lasciare a noi lettori l'onere del giudizio - si agganciava a un articolo comparso su Rolling Stone, la versione italiana della rivista americana, autoincoronatosi fin dal primo numero come Bibbia del rock n roll style. Lì compariva infatti un lungo articolo di Paolo Madeddu, che smontava col piede di porco il "mito post-mortem" del Faber, affermando che "la leggenda del santo cantautore non sarebbe piaciuta neppure a lui (...) De André era lucido nell’autocritica ma confuso in politica". Illuminato come mai in vita sua, il Beatrice afferra dunque la penna d'oca e si produce in alcune capriole degne di essere riportate integralmente.

    Che sollievo leggere queste considerazioni - scrive infatti - anche se pronunciate con colpevole ritardo (...) Negli anni Settanta il Bel Paese era funestato dai figli ingrati della borghesia pasciuta e benestante (...) Oltre a rappresentare ben poco dal punto di vista della ricerca sonora, quasi nulla li differenziava dai cantanti del Festival di Sanremo, se non la verniciatura di «rosso» sulla rima baciata cuore-amore. Fabrizio De André era uno di loro, come l’altezzoso De Gregori, l’avvelenato Guccini, il sopravvalutato Vecchioni. Borghesi, benestanti, ricchissimi, indifferenti alle vicende di quel proletariato che spesso citavano a sproposito nei loro testi

Viene da chiedersi se si tratti di un articolo o di un corsivo, che attraverso il sapiente uso del grottesco supera un baratro di imprecisione. Vi consiglio la lettura integrale, non senza precisare che non più tardi di quattro mesi fa sul Giornale era comparso anche questo articolo di Luciana Baldrighi, di tutt'altro tenore. Provo, in pillole, in disordine e senza pretese, a dire la mia.

Trovo sbagliato fare leva sulla biografia di DeAndrè per politicizzarne a posteriori l'arte. In questo modo si banalizza il pensiero inquieto ma coerente di uno che in vita sua si era sempre definito - a parole e in musica - un anarchico, prima che la parola assumesse ben altro tipo di connotazione. Ho iniziato a dubitare dell'autore davanti all'accusa di scarsa innovazione sonora, valida forse per tanti suoi colleghi ma assurda se la si riferisce a DeAndré: Un ottico resta a tutt'oggi un ponte fra la sfera dei cantautori e quella del prog italiano, per non parlare degli arrangiamenti di Storia di un impiegato, dei tour con la PFM e soprattutto di Creuza de Ma. Ma il problema è più vasto, e decisamente più complicato.

In particolare Beatrice, forte dell'investitura madedduana, giudica di riflesso DeAndré attribuendogli le parole dei suoi personaggi, un po' come se si confondesse Dumas con Edmond Dantes. La grandezza di DeAndrè invece stava nella capacità di fermarsi un passo prima di esprimere un giudizio: pensiamo a Un Giudice, al Bombarolo, a Rimini, a Marinella e, addirittura, a Gesù Cristo nel Testamento di Tito. Non critica, nè indirizza, ma mostra e sta a guardare. E' per questo che tutti noi non possiamo che sentirci parte di quelle canzoni, come se fossero storie nostre: DeAndrè non entra nelle sue storie ma le presenta, tanto che le parole più belle sono quelle che si leggono in filigrana fra una strofa e l'altra.

Stupisce quindi che si accusi il Faber di essere un "figlio ingrato della borghesia pasciuta e benestante". Ben conscio delle sue origini, DeAndrè ha rappresentato l'animo inquieto e fragile di un'altra Italia, di quell'Italia combattuta fra restare alla finestra o scendere in piazza, l'Italia dell'uomo borghese, della sua crisi e della sua paralisi. La sua musica e le sue parole, ben oltre la rima cuore-amore di sabiana memoria, hanno scavato e continuano a scavare questo nelle tasche di questo paese, miracolosamente insensibili al passare del tempo (almeno dalla Buona Novella in poi). Il mito di DeAndrè non si basa sulla sua biografia, ma sulla sua musica. Se non lo si capisce è consigliabile tacere e non sprecare l'occasione di stare zitti. Sorvolo sull'evergreen di certa destra, che ritiene radical chic uno che, avendo idee progressiste, si fa pagare bene per fare il proprio lavoro e vi lascio la sterile polemica su Lucio Battisti, quello che accusò le canzoni del Faber di essere "temini da liceali" sfrecciando sulla scoppiettante motocicletta 10hp.

Mi preme solo ricordare cosa sia realmente la presunta bibbia del rock n roll style. Il problema della Bibbia infatti è il franchising del marchio. Ormai anche uno studentello un po' nervoso che ciclostila la sua fanzine dopo poco tempo diventa autore di una bibbia. Rolling Stone Italia ha dedicato decine di copertine a personaggi che con la musica (e con il rock) avevano ben poco a che fare, esprimendosi con una superficialità spesso imbarazzante in ogni pagina, dall'editoriale alle recensioni. Le Bibbie, per fortuna, sono ben altre, e mi auguro che in futuro Luca Beatrice, quando si troverà a scegliere le sue fonti per scagliarsi contro un gigante della cultura - e non solo della musica - italiana, ne tenga perlomeno conto.

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